Vaccino e licenziamento. E’ possibile licenziare un dipendente che non intenda vaccinarsi?
IL DIBATTITO
La distribuzione del vaccino anti Covid-19 ha sollevato un acceso dibattito sulle conseguenze per il lavoratore che rifiuti di sottoporvisi.
Si tratta di un tema particolarmente delicato. Come tale, è logico pensare che qualsiasi soluzione tratta da una sintesi sommaria delle autorevoli posizioni recentemente espresse non possa essere accolta.
Occorre, diversamente, compiere lo sforzo di ragionare in termini di legge. Questo significa che, in assenza di una norma che ad oggi imponga l’obbligatorietà del vaccino, è necessario ripercorrere le norme attualmente esistenti. Ciò per verificare se le stesse possano essere effettivamente applicate al fine di decretare la legittimità del licenziamento del lavoratore che non intenda vaccinarsi. D’altro lato, non si possono nemmeno trascurare gli effetti che dall’una o dall’altra soluzione potrebbero scaturire.
Si è parlato a lungo, nei mesi di pandemia, del bilanciamento fra il complesso di interessi e diritti costituzionali della collettività e dei singoli. A tal proposito, è fondamentale tenere a mente che il compito di trovare un punto di equilibrio non può spettare ai datori di lavoro, essendo esclusivo del legislatore.
LA NORMATIVA DI RIFERIMENTO
“Nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario, se non per disposizione di legge”. Questo, cioè quanto viene disposto dall’art. 32 della nostra Costituzione, deve essere il punto di partenza.
La Corte Costituzionale ha inoltre chiarito che la legge impositiva di un trattamento sanitario è compatibile con l’art. 32 Cost. quando il trattamento è diretto non solo a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri.
Giunti a questo punto, ci si chiede se effettivamente esista una norma che, anche in assenza di espressa menzione del vaccino anti Covid -19, faccia propendere per l’obbligatorietà del ricorso allo stesso da parte dei lavoratori.
Secondo quanto previsto dall’art. 2087 c.c., il datore di lavoro è tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale dei prestatori di lavoro. Non si tratta di una previsione dal contenuto specifico, essendo rimesso al caso concreto la scelta delle misure più idonee. A tale dovere, fa riscontro l’obbligo del lavoratore di cooperare nell’attuazione delle misure di sicurezza fornite dal datore di lavoro.
Ancora, l’art. 279 del Testo Unico della Sicurezza sul Lavoro prevede che il datore di lavoro, su parere conforme del medico competente, debba fornire, ai lavoratori che non vi fossero immuni, il vaccino contro l’agente biologico presente nelle lavorazioni a cui sono addetti.
La medesima norma prevede tra le misure speciali di protezione, fra le quali il vaccino, anche la possibilità di allontanare temporaneamente il lavoratore adibendolo, ove possibile, a mansioni equivalenti o in difetto inferiori.
Queste sono le fonti normative prevalentemente richiamate nel dibattito dottrinale che sta avendo luogo oggi e sulla base delle quali sono state avanzate diverse soluzioni.
LE TESI A FAVORE DELLA LEGITTIMITA’ DEL LICENZIAMENTO
Secondo una tra le tesi avanzate, l’obbligo in capo al datore di garantire l’integrità fisica e morale dei prestatori di lavoro ex art. 2087 c.c. sarebbe di per sé sufficiente ad imporre la vaccinazione.
Qualora il lavoratore dovesse rifiutare e ciò dovesse compromettere il rischio per la salute degli altri, tale rifiuto (in assenza di mansioni alternative) potrà costituire un impedimento oggettivo alla prosecuzione del rapporto di lavoro. Tale soluzione si concilierebbe con quanto disposto ex art. 32 Cost, poiché la medesima norma riconoscerebbe una prevalenza del diritto alla salute della collettività rispetto alla libertà di scelta e rifiuto di una terapia.
D’altro canto, chi fa leva sull’art. 279 del Testo Unico della Sicurezza sul Lavoro, ritiene che in caso di rifiuto del vaccino ed impossibilità di ricollocare il lavoratore, non vi sarebbe altra soluzione che il licenziamento.
LE CONTESTAZIONI DELLE TESI A FAVORE
Entrambe le tesi esposte hanno subito contestazioni.
Per ciò che riguarda l’applicazione dell’art. 2087, per alcuni sembra difficile poter affermare che lo stesso possa superare il disposto secondo cui solo una legge può imporre l’uso del vaccino. Se anche è vero che la norma costituzionale mira a garantire la salute della collettività, non bisogna dimenticare che essa mira altresì a tutelare la libertà di scelta del singolo. Ed e’ proprio il motivo per cui la compressione di tale libertà può essere prevista solo per il tramite di una legge.
Il Testo Unico della Sicurezza sul Lavoro, d’altra parte, sicuramente fornisce un presidio utile per tutte quelle situazioni in cui l’agente patogeno sia intrinsecamente legato all’ambiente di lavoro. Si pensi, ad esempio, agli ospedali o alle RSA e cioè ai casi in cui l’ambiente fornisce un alto grado di probabilità di divulgazione del virus, con la conseguenza che qualsiasi soluzione alternativa al vaccino potrebbe dirsi non efficace. Occorre tuttavia rilevare che l’art. 279 citato non parla di obbligatorietà, ma di messa a disposizione. Inoltre, l’esperienza di nuove forme di lavoro nonché il largo impiego dei DPI hanno dimostrato come anche soluzioni diverse dal vaccino possono efficacemente incidere sull’arresto della diffusione del virus. Secondo alcuni autori, non si spiegherebbe quindi come in tal caso il licenziamento del lavoratore possa giustificarsi in luogo all’applicazione di misure comunque idonee.
CONCLUSIONI
Il dibattito è tutt’altro che concluso. Non è certamente questa la sede ove valutare la convenienza e l’efficacia del vaccino. In assenza di una disposizione normativa che imponga chiarezza sull’obbligatorietà e sulle conseguenze in caso di rifiuto del vaccino, largamente auspicata, non resta che tentare una disamina delle disposizioni vigenti. Certo è che, la scelta di imporre un trattamento sanitario, non può essere discrezionalmente operata dal datore di lavoro che così rischierebbe di andare in contro a gravi forme di responsabilità. Talvolta, i rifiuti potrebbero infatti essere giustificati da situazioni soggettive, anche riconosciute a livello medico.
L’approccio più prudente, attualmente, sembrerebbe quello di incentivare la vaccinazione con apposite campagne aziendali, sensibilizzando il più possibile i lavoratori, anche mediante l’intervento di personale esperto a disposizione dei dipendenti: chi può, insomma, e non ha problemi a farlo, che si vaccini.
In ogni caso, qualsiasi decisione del datore di lavoro dovrebbe essere attentamente vagliata da figure esperte nel settore ed aggiornate sulle copiose integrazioni normative che caratterizzano il periodo emergenziale. Questo per evitare che, nel “caos” del momento, possano essere compiute mosse “azzardate” da cui potrebbero derivare (verrebbe da dire: nella migliore delle ipotesi) contenziosi che in questi casi coinvolgerebbero le tutele massime e sarebbero dunque molto costosi.